sabato 18 gennaio 2014

Recensione de "L'ombra della salute" (Alberto Pellegatta) di Massimo Dagnino

Dice Foucault "La borghesia per darsi un corpo , ha guardato verso la sua discendenza e la salute del suo organismo". L'ombra della  salute (La salute titolo originale) è il libro maturo di Alberto Pellegatta:  la salute è un  dispositivo del potere, di un potere invasivo e che ci vuole accudire, a cui la poesia non si sottrae mettendola in scena (fra "poeti glamour" e "l'offeso"): "la macelleria dell'angolo ha la sua vetrina sconcia" che sembra rimandarci all'ex macello divenuto obitorio in Teresa Raquin di Zola: "l'obitorio è uno spettacolo alla portata di ogni borsa, che si offre gratis...entri chi vuole." E' così che un locale infetto e disgustoso- La Morgue -  è diventato un piccolo monumento e " c'è gente chi si sottopone a veri e propri viaggi, per non mancare neanche a una di queste rappresentazioni della morte" che nei versi del poeta milanese  è colta nel suo disfarsi fino a produrre "crema", "schiuma" e "acqua": tutto "entra in circolo" e la carne urla. Ma perché? Perché non riesce mai a stare zitta, verrebbe da dire.
Nell'amministrazione della salute non manca l'architettura trattata alla stregua dei corpi ("il pulviscolare sgranchirsi del corpo principale...") o rimandata nel suo essere "casa / di cura", così viene percepita l'eventuale Seconda patria. In queste poesie entrano in gioco  anche vicende familiari, biografiche, millesimali.  Nel libro sono ravvisabili riferimenti multipli riconfigurati nella propria voce - "raffineria del discorso" -  da De Angelis, Raboni, a Cucchi di "Poesia della fonte" e , come scriveva Santagostini, "concorre a questo risultato un apparato metrico sorvegliato"  già evidente nella plaquette d'esordio Mattinata larga in cui l'endecasillabo sfociava in ipermetro fino alla prosa poetica di Quasi carta.  Rispetto a Mattinata larga  l'autore - in questa nuova prova -  ha asciugato il dettato poetico senza tralasciare una sorta di manierismo che si coagula in sintagmi all'interno di alcune poesie, quasi a divenirne epicentro (ma solo per poco...).
Nel suo procedere l'autore ci segnala "una mancanza"  che si fa via via pressante costringendoci a fare appello a "formule" ("formula /amorosa perfetta"  e ancora "pulisce bene le formule") destinate a insterilirsi,  nel mentre anche il pensare in versi subisce distorsioni indotte "non è mai / ciò che abbiamo scritto" si legge in una chiusa: a evidenziare una "disarmante" disconferma che il poeta constata.
Non va dimenticato che l'incipit del testo è affidato all'immagine della chiesa della Salute dipinta da Turner che si squaglia proiettando quanto  ne consegue nella dimensione del no future; il disfacimento è sottoposto a una elevata ipocondria con marcata scrupolosità nell'osservare-indagare il corpo (qualche ghiandolina...) data "l'eccessiva intimità" autocentrata. Il tema centrale fa da catalizzatore ad altro  gettando il lettore "nel vuoto concavo / che ci contiene tutti" fra "spaventosi silenzi primitivi". Diverse discipline si mescolano chiamate a supportare e a espandere  il canto.


Massimo Dagnino

Recensione della plaquette "Adolescenza" di Gian Piero Stefanoni

Ci siamo già occupati della collana di Arte-Poesia “Coincidenze” curata da Mario Fresa per Le Edizioni L’Arca Felice in cui nei testi al percorso in versi sono accompagnati gli interventi visivi dei vari autori. Edizioni preziose e ben corredate che si confermano in questo smilzo libricino di Massimo Dagnino, sicuro poeta e pittore in cui ritroviamo appieno quel disagio dell’uomo nel suo rapporto con le cose e il mondo esterno sottolineato da Maurizio Cucchi nell’introduzione e al cui interno solo una resistenza o, per contraddizione, una remissione d’attrito pare a tratti la sola incisione possibile. Così, emblematica di questa separazione e ben dilatata, è la figura adolescente alla base della narrazione la cui irretita emozionalità, fin dal primo testo, muove in sospensione tra idiosincrasie corporali e mentali ed un osservazione ferma al legame di corpi e ombre nella massa dentro e fuori e lo sfondo. Sfondo impresso su lastra dentro non-luoghi (senza paura d’abusare della definizione cara ad Augè), o luoghi terzi forse nell’intersezione dei passaggi tra folgorazioni di retina e fisicità di campo, tra postazioni in divenire e svanire ed ansie personali. Carte topografiche e mentali che lo stesso Dagnino registra confondersi in corrispondenza o deviazione di quella realtà via via sempre più magmatica, sempre più sfuggente composta nel quotidiano di campi d’allenamento, scuola, stazioni e sale d’aspetto ed una natura quasi in controcanto a rivelarsi salda fin nei suoi dettagli e frammenti di scorza, seppure all’umano a volte anch’essa ancora oscura e inconoscibile. Esemplificativo in tal senso, soprattutto nel seno di un’età contraddittoria- mai certa, mai davvero doma a se stessa procedendo per disavanzi “nell’ipertensione dello scenario”- è la terza composizione (come le altre senza titolo) in cui, nello scarto tra “primordiale occhio” e algide occlusione vegetali, la figura del sogno viene progressivamente smentita in compresenze di tormento. Così, vedremo, nella densità dei giorni e degli insabbiamenti temporali, resta la notte a verificare ritrosie e desideri, forze e inadeguatezze nelle tradotte posture del sonno. Ma ovviamente a Dagnino non interessa raccontare conferme quanto riportare in una lingua carica, esatta, perfettamente essenziale e funzionale al suo dettato, tracce e forme di una disaderenza nelle cui ambiguità e nelle cui distonie il reale può sorprenderci e perderci fino ad un buio che “non si cura del senso d’appartenenza” e che- come suggerito dalla penetrante immagine di uno degli ultimi testi- “violentissimo” può espellerci come convogli. Puntualità di lingua, dicevamo, in cui lo stesso criptico sforzo talora ritornante si rivela nella sostanza l’efficace riflesso di un crescere e divenire instabile che nella rispondenza sovente procede per enigmi, o per squarci improvvisi, balugini in cui volti, case e stati di natura si spiegano in modo non ordinario. Condizione non solo adolescenziale ci suggerisce evidentemente Dagnino, in un’indagine quasi chirurgica le cui ferite guarire non può ma solo segnalare (come nella tavola in matita su carta “Anatomopaesaggio”) come sintomo di una decostruzione del contemporaneo le cui deformazioni, i cui smottamenti dominano qui nell’alveo di un silenzio continuo, di un gelo atmosferico nel nord del paesaggio, a rimarcare al meglio negli appannamenti d’impronta piccole e irrisolte liturgie personali. Un mondo il nostro, a dirlo con la forza degli ultimi versi, “Inerte” dunque, che “Non cresce mai,/ Esiste costretto in una/ Stupefacente visione frontale”. Visione che l’artista genovese sostiene e conferma nei tre disegni acclusi in un percorso personale rigoroso e incisivo.