[Recensione di Mary
B. Tolusso in Almanacco del Ramo d’Oro nn. 5-6, Anno II febbraio 2005,
Trieste.]
Massimo Dagnino, Verso l’annichilirsi del disegno…,
Faloppio, Lietocolle 2004, pag. 42, euro 10,00.
Immaginiamo di vedere una città dall’alto, di notte, un
paesaggio di sfumature e luci intermittenti. E poi dal basso, alla guida di
un’automobile, a velocità elevata magari, immersi nelle dissolvenze che filano
rapide e ci procurano una inquadratura immobile e mossa. E ora pensiamo a un
testo, alla scrittura, a quello che in proposito aveva detto Roland Barthes,
alla dissolvenza di un Dio-autore, a uno spazio pluridimensionale dove si
mescolano molteplicità di testi che convergono nel lettore (non nell’autore).
Ed ecco l’unità di uno scritto, come l’unità di una immagine, identificarsi non
nell’origine, ma nella sua destinazione. E’ il tragitto che percorriamo con
“Verso l’annichilirsi del disegno…” di Massimo Dagnino (collana “Opera Prima”
curata da Maurizio Cucchi), plaquette raffinata di un autore che è già attivo
nel mondo delle arti figurative e che ora dà una ulteriore prova della sua
sensibilità tramite il verso. Si tratta di originali e moderni “punti di
percezione” (monadi), che si prestano anche a un rovesciamento, la possibilità
cioè di una immagine ottenuta per sottrazione (“Il già visto per
sottrazione…”), che si può opporre a quella “immobile” e “latente”, e comunque
punti di una stessa prospettiva statica e in movimento. E il discorso, che
procede per visioni e cumulazioni surreali (ma non solo), ci pare subire la
stessa fase di decostruzione derridiana, lì dove il linguaggio produce una
parola non spazializzata e formale, ma espressione della temporalità dell’essere.
Discorso mobile insomma, fondato sul “nulla”, che tuttavia lascia aperta
l’inesauribilità del testo. L’orizzonte che si configura è di un mondo-deserto
dove il lettore si aggira tra quei residui che ne compilano l’inventario, senza
più il pathos da Ruinensehnsucht (nostalgia delle rovine) romantica.
Dietro ci sta anche Lynch (che strizza l’occhio a Deleuze), dimensione in cui
ci introduce lo stesso poeta con due celebri film del cineasta, non a caso
posti come titolo sopra una citazione deleuziana. Una sorta di dissoluzione e
decadenza, come in “Lost Highway”, che però accumula frammenti, flash,
brandelli di immagini per devolverli nell’inversione dissolutiva di una memoria
che azzera le tracce (“E tutto si concretizza in ricordi accidentali”), che
cerca di demolirne l’origine per avvicinarsi a una nuova: la negazione
dell’unità dell’opera (e dell’immagine, con i suoi doppi simulacri “in parte
speculare io”, come una Patricia Arquette, verrebbe da pensare, bellissima e
sdoppiata) e ne afferma invece una che sia dischiusa, decentralizzata. Il prima
e il dopo impazziscono e il cortocircuito degli “eventi” spiazza il lettore che
non sa bene dove si trova o se abita un qualche punto della storia. Ed è anche
in questa potente “evanescenza”, come in un dipinto di Pollock, una delle
fascinazioni di Dagnino. Oppure l’attenzione per rappresentazioni iperreali del
plasticoso mondo (cavi neri, fari elettrici, tralicci, web cam…) visto di
sguincio, dall’alto appunto, come la Los Angeles di “Mulholland Drive”. Altrove
invece momenti di “assenza”, negazione di fonti di rumore a potenziare
l’accelerazione di un “vuoto-pieno” in evocazioni sonnambulesche (“Vorrei
essere nello strano teatro/ Silenzio/ Fuori campo, in bilico tra
play back e film”, “…L’idea del silenzio/ Ne era sostanza”). Stiamo andando
“verso”, non siamo ancora giunti, a quell’annichilirsi dove Dagnino si spinge,
ruota pericolosamente attorno a quel buco nero che attrae tutto e che provoca
la deriva delle certezze spaziali e temporali. I dettagli destabilizzano
continuamente la percezione del lettore, ma lo rendono anche libero di
interpretare ciò che gli viene raccontato accatastando dati che non rispettano
alcuna consequenzialità. Ma non tutte le logiche realistiche vengono meno e
anche se i processi di connessione rispondono solo a quell’universo, fatto di
luoghi che perdono le loro connotazioni e puntano ad una sorta di implosione,
infine qualcosa rimane meno sospeso ed è quel “Tremblay che accende la sua web
cam” in uno spiraglio di “realtà”. Sicuramente non sarà “L’odyssee d’Alice
Tremblay”, che entra nel mondo delle fiabe procurando sconvolgimenti alle trame
abituali dei classici, ma un Tremblay di “mani sudaticce” e in attesa di
“abbinare a una voce un volto”. E di più: “dietro il volto/ la carne”. Ecco
allora la chiusa, dettata da infiniti punti di sospensione di seguito a
quest’ultimo verso che termina la raccolta. Ecco la fine del viaggio, dove
Dagnino perfidamente avviluppa la storia dal suo interno, impedisce al lettore
di uscirne, se non ripercorrendo la strada del deserto (quello lynchiano, per
esempio, ma soprattutto quello del post moderno) per lasciare dietro di sé
tutti i mondi immaginati in questo secolo di stereotipi, di comunità
monadologiche, di soggettività superate e ricomprese all’interno di molteplici
alter ego, gli stessi che dettano l’unità della lettura di questa “moderna
versione della monade”.
mbt
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