Corrado Benigni, Alfabeto
di cenere, LietoColle (Faloppio, Como 2005)
Corpi (“ombre nell’aria i corpi”…), urlo (“Nell’urlo di questo sonno”, “alla velocità di un urlo”, “a
prova di urlo”, “Ma la carne è un urlo”, “urlano queste mani nude”), luce – “soprattutto la luce”- (“questa
luce che si lacera”, “senza memoria della luce”, “risalendo controluce”, “è
luce che si fa ruggine”, “un sepolcro di luce”, “luce senza respiro”, “luce di
corto fiato”, “e la luce dell’inizio”, “corpi gravati di luce”, “siamo luce”,
“siamo voragini di luce”, “Sei tu questa luce smangiata”, “questa luce che
penetra”, “dove la luce corre via”) e a contraltare non può che esserci una
zona d’ombra ma anche “Nel centro esatto del buio/ splenderanno queste vene”
(il sangue circola dappertutto) …parole ricorrenti, queste, nell’Opera Prima di
Corrado Benigni, nato a Bergamo nel 1975, intitolata Alfabeto di
cenere; “questa cenere che pesa” prossima a ricostituirsi per riordinarsi
in lettere, da qui il titolo paraestetico del libro che contiene in simultanea la
dissoluzione/silenzio del
linguaggio e il riferimento didattico al prodursi di una lingua. Una lingua che
si fonda su ciò che resta , una parola che chiede mentre “Il silenzio
risalirà le voci”. In questo libro si dà “l’inizio”, ma questo inizio è l’esito
di uno iato, di una cesura: il linguaggio è stato distrutto, la carne è stata
ridotta a cenere. L’inizio è allora niente di meno che l’invenzione di una nuova lingua ma questa lingua è,
nelle parole dell’autore, “il tentativo di ricomporre - di
"alfabetizzare", appunto - i resti inceneriti delle parole stesse”.
Dice Milo De Angelis nella nota
introduttiva: “versi che tentano […] di dare un perimetro alla materia
incandescente del trauma, di conferirgli un ritmo fermo di constatazione”.
Constatazione che lascia agio all’indeterminazione del limite in una direzione
espressionista, diversamente, per esempio, dal
classico enjambement penniano "Nel cuore è quasi un urlo / di
gioia. E tutto è calmo", nella poesia a
G.T. Benigni ci introduce all’
urlo della carne, come quello
della bocca – cava, rossastra, da atlantino di anatomia - di Innocenzo
X dipinto da Bacon . Un urlo
sordo che è una bocca spalancata. E
dunque “siamo noi / queste bocche spalancate” e, per dirla con Sanguineti, “i miei occhi che sono bruciati come gli occhi che
sono bocche:”. L’autore ci presenta dei corpi fratti,
talvolta inermi, “gravati di
luce”, una luce, come evidenzia De Angelis, muovendo da Celan, “carica di
allarme e peso” (diversa , per
esempio, dalla luce misteriosa della antichità di Joseph Gandy, “amanuense” di
Sir John Soane, che va a definire le architetture fino a diventare cifra
stilistica). In questo libro il termine “luce” si itera, luce che rimanda a un’apertura di cui
bisogna farsi carico: si è “gettati” in una continua esposizione, finché
“ritorneremo” in “quel puro dell’acqua che acceca”.
E ancora è riscontrabile un’assonanza fra le poesie di
Benigni e il segno tormentato (quasi una ferita, una bruciatura) di Schiele, autore scelto non a caso per l’immagine di copertina del
libro, il quale, nel 1911, scriveva con parole che
potrebbero riferirsi alla poetica del giovane autore : “per condurre la mia
ricerca, per poter inventare, per scoprire con mezzi che sento nel mio intimo,
che da soli hanno la forza di incendiare, di bruciare, di splendere, come un
pensiero, di luce eterna, e di aprire un varco di luce nella più oscura
eternità del nostro piccolo mondo…”. Le interferenze con le arti figurative,
l’architettura, il cinema, la musica… sono visibili nella giovane poesia, e anche l’autore stesso non nasconde un rapporto fra la sua scrittura e la tecnica pittorica-scultorea di
alcuni artisti, in particolare l’opera
di Alberto Giacometti. Benigni sembra fare proprio l’assunto michelangiolesco
“tollere il soverchio” che egli ritrova nell’opera di Giacometti, pensiamo ai
disegni dell’artista svizzero dove, nella ricerca di un nucleo della figura, arriva
a graffiare il foglio e le
cancellature diventano colpi di vuoto
(per permanere poi come cicatrici
registrate dal supporto). La scarnificazione giacomettiana, secondo
Sartre, dipendeva dall’intrusione
del vuoto.
Ricerca di un nucleo che nelle
poesie di Corrado è la ricerca di una pronuncia “essenziale ed esatta” senza
dispersione alcuna e uno strano vuoto modellato “armoniosamente” si riversa
nelle pagine del libro circondando le figure. Vale la pena notare che in queste
poesie si è in uno stato di soglia: “distanti
una promessa / verso la stella che non ha brillato” …una promessa mancata…e “al di qua di un padre”, in una
condizione di fatica, privi di un’uscita di sicurezza.
Un libro, dunque, scritto in uno
stile asciutto, rigoroso con forte attenzione all’economia del linguaggio che
fa i conti con il “demone della variante” - “senza perimetro l’attesa” - in un continuo ritornare “su” ciò che
si è scritto e “il tempo avanza come un cerchio”: un cerchio perfetto, “mentre
la vita scorre […] nel corso del tempo senza bisogno di creare storie. O di
manifestarsi in storie." *
(*dal
film di Wenders “Lo stato delle cose”, Der Standt der Dinge, Germania, 1982 ).
Massimo Dagnino
[Fonte: Almanacco del Ramo d’Oro n°9, Pornologia,
Trieste 2008]
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