Presente
continuo di Massimo Dagnino (Stampa 2007)
(Riccardo Ferrari)
Presente continuo è la
seconda raccolta di Massimo Dagnino, dopo Verso l’annichilirsi del disegno…(2004,
qui ripresentata e inglobata, come sottolinea Maurizio Cucchi nella prefazione,
da un lavoro che si realizza come un “work in progress”). Infatti poco cambia
nel preciso congegno poetico architettato dall’autore: rimangono le
particolarissime descrizioni di un paesaggio postumo, dove spazio e mente sono
due polarità in continua interferenza; rimangono, ancora più incisivi, i
rimandi intertestuali ad altri linguaggi artistici, il cinema, la pittura e
l’architettura. E soprattutto rimane un atteggiamento verso il linguaggio
basato sulla sottrazione, dove a un’apparente antilirismo della scelta
semantica si affianca sempre un’iper-costruzione del campo della frase e del
verso, un vero inseguimento della forma definitiva contro la ridondanza che
assume in certi esiti un andamento quasi aforistico.
Per comprendere l’opera di
Dagnino si dovrebbe fuoriuscire dal recinto della poesia italiana
contemporanea, perché si tratta di un registro inedito aperto a varie
declinazione di alterità (come, per fare un esempio, la lirica e la pittura
americana ottocentesca), ma innanzitutto a quell’alterità sepolta nell’io, a
quel “fading” che costituisce la dialettica della soggettività. Il presente
continuo è un conio della grammatica anglosassone solo in parte coincidente con
il nostro gerundio presente, ed è già un programma di poetica: l’io lirico è
letteralmente preso in un movimento di dissoluzione in un presente che non è
eterno e sempre uguale, ma differenziale e in continua oscillazione; il suo
orizzonte si allarga però a macchia d’olio e non concede voce ad altri tempi
verbali. Questa specifica postazione poetica la si potrebbe rappresentare come
quella di un automobilista solitario che viaggia nella notte (ricordiamo qui il
riferimento, presente nella prima raccolta, a Lost Highway di David
Lynch) e in un gioco “en abyme” dica “sto guidando e sto guardando” fino a
sciogliere l’istanza volontaristica che compie tali azioni in una completa
passività di fronte all’irrompere di un “landscape” geografico ma anche
culturale. Il paesaggio che invade e si impossessa del guidatore notturno è
segnato da un’urbanizzazione ormai passata e in procinto di ritrasformarsi in
ambiente selvaggio, preistorico e post-moderno, in “wilderness” (epicentro di
questa fenomenologia composita potrebbe essere Via Cassanello, nella periferia
dell’ex Genova delle industrie: «di nuovo via Cassanello, la griglia
prospettica / di edifici stinti […] c’è come un paesaggio residuo che preme /
sul “non riuscire a” più volte diluito…il senso dell’ansia / nella testa»).
Si tratta in sostanza di un
soggetto della percezione che continuamente spiazza il lettore in un percorso
fra visibile e invisibile, fra un’istanza di perduta classicità e di
funzionalismo e un contromovimento esplosivo. L’immagine inseguita è sempre
un’immagine polarizzata e la formazione grafico-pittorica dell’autore ha qui tutto
il suo peso, basti guardare la Natura morta di copertina disegnata dallo
stesso Dagnino. Un’altra metafora che potrebbe venire in mente per comprendere
questo gesto poetico è quella di una telecamera dal segnale video disturbato a
tratti da campi energetici e che lentamente si gira dalle strade e dai palazzi
ad inquadrare l’operatore, proprio per testimoniare questo ampio campo di
interferenza in cui non è più dato distinguere il dentro e il fuori («Fisso lo
sfondo come gli angeli / Di Otto Wagner / Perpendicolari a Dio: // Rotola la
telecamera inquadra / In languide allusioni accentra / Orrendi palazzi
nell’azzurro / Estremo // Mi vedo in piano americano / Accanto ad amici
superflui / Soffocato dal dono / Di sperperare il mio tempo»). Al grande serbatoio
culturale europeo si affianca poi la visione di un’America fantasmatica,
sognata e tradotta come puro punto di fuga («Gli scenari stavano cambiando») al
quale agganciare le linee della propria pulsione scopica, un’America in
differita, quasi un’icona elettronica che palesa la sua tessitura di pixel dove
tutto si può ricostituire (Mi replico nell’autoritratto / Di Gerstl
all’animarsi di Miami; In differita / Fino all’imporsi dello sfondo / Su cui
giace il mio corpo / Formicolante patina»). Un “amico americano”, Tremblay, in
comunicazione via internet, trasmette poi anacronismi dal passato, «Immagini
ossidate della Guerra Civile», in una specie di blues metallico e straniante
(«Tu e tuo nonno Frank – Grandfather – veleggiavate / Sull’Hudson /
Senza luna», versi che nella traduzione in inglese a fronte recitano: «You and
your Grandfather Frank – nonno – sailed on the moonless / Hudson»…).
Presente continuo è
insomma un’intensa prova di ripensamento della lingua poetica, difficilmente
rubricabile in una formula perché gioca ironicamente con un limite sempre
pronto a infrangersi e moltiplicarsi, un’armatissima sonda che scandaglia il
mistero delle parole e delle loro infinite transcodificazioni (si pensi ancora
ad un altro riferimento cinematografico, Lost in translation di Sofia
Coppola); l’esito parziale di questo percorso percettivo e conoscitivo è forse
riassunto nella penultima poesia della raccolta, dove viene azzerata la
differenza fra originale e copia, come le ideologie che questa distinzione
veicola, e viene prospettato un principio di dissipazione di fronte al quale
non si tratta che di sintonizzarsi «Sarebbe avvenuto in simultanea / Allo
sdoppiarsi della lingua / Tutto avrebbe finito per coincidere / Boston con
Boston, Miami con Miami, Tremblay con Tremblay, le foreste / Del Maine: strani
scenari planimetrici / Privati del come».
[Fonte: Capoverso n° 14,
luglio-agosto 2007]
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